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Scuola italiana: un'inclusione che esclude o dell'ignoranza esclusiva



Un divertente esercizio accademico cui si può giocare può essere quello di burlarsi della magica parola "inclusione", un must di chi voglia a qualsiasi titolo affermare una qualsiasi cosa intorno alle politiche scolastiche e alla didattica, si potrebbe anche dire che l'espressione "inclusione" costituisca l'ultima frontiera del "politicamente corretto" nella didattica parlata. Il fatto è che, a fronte di un sempre maggior dispendio di risorse e impegno per includere, il numero degli esclusi si mantiene costante. Pubblico quindi questo testo, che trovai tempo fa in rete, firmato da un certo Franco Margianni, pur non condividendo quanto vi si sostiene e per il troppo cinico sarcasmo e per la polemica inconcludenza. Sospetto anzi che lo stesso nome dell'autore sia uno pseudonimo, dato che non ne ho trovato traccia in rete.
D'altronde è pur vero. come diceva quel tale, che burlarsi di qualcosa è il solo modo di affrontarla seriamente.

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Perché tutte le politiche centrate sull'educazione inclusiva stanno producendo Ignoranza Esclusiva?
Uno spettro si aggira per la scuola: lo spettro dell'ignoranza. Tutte le potenze si sono coalizzate in una sacra caccia alle streghe contro questo spettro: presidenti del consiglio e ministri della pubblica istruzione, tecnologie dell'educazione e didattiche dell'inclusione. Lo spettro, tuttavia, lungi dello scomparire, infesta sempre più la scuola.

Sembra che una strana maledizione caratterizzi certe vicende della storia italiana: quanto più si vuole una certa cosa, tanto più si ottiene il contrario: più la scuola si vota alla didattica inclusiva, più aumenta un'ignoranza esclusiva. 

Sembra quasi che si sia proceduto a progredire verso più alte vette di gattopardismo, non più "tutto deve cambiare perché tutto resti come prima", ma "tutto deve cambiare perché tutto sia peggiore di prima"

Le classifiche si sa, possono essere lette in tanti modi, ma anche in questo caso c'è l'eccezione che conferma la regola: qualsiasi tipo di classifica che riguardi l'istruzione, da qualsivoglia punto di vista, vede sempre l'Italia ben piazzata nelle ultime posizioni. Che si parli di abbandono scolastico o di Neet, di percentuale di laureati o diplomati, di spesa per la cultura o l'istruzione, di percentuale di laureati tra i manager o di disoccupazione giovanile, il nostro paese è impegnato in una pluridecennale battaglia per la conquista delle ultime posizioni. Saranno pure robaccia le varie classifiche di Ocse Pisa, Invalsi, Eurosat e via discorrendo, ma la coerenza con cui l'italico popolo si colloca nelle ultime posizioni è degna di nota.

Come reagisce la politica scolastica a questo problema? Un esempio? Vediamo l'inclusione versione italica produrre ignoranza e quindi esclusione, già dalla fine degli anni '70, come sosteneva Visalberghi quando asseriva l'inconcludenza delle alternative alle pratiche tradizionali di valutazione. Si può ottenere l'inclusione attraverso una via facile, che chiameremo la ricetta italiana, quella della furbizia spicciola, eccola qua:
1. si prendano gli obiettivi didattici
2. se ne ridefiniscano gli standard abbassandoli sistematicamente a un livello sub umano
3. il gioco è fatto: tutte le alunne e gli alunni hanno conseguito gli obiettivi.
O, più semplicemente, si mantengano immutate didattica e valutazione e ci si rifiuti di valutare.

Non siete convinti? In molte scuole si discute, vota e spesso approva, la proposta di eliminare i voti troppo "negativi", tipo il 2, il 3, talvolta anche il 4. Dopo tale geniale "riforma", il 4 non varrà quanto il 2, ma quanto il 6: "todos caballeros", inclusione conseguita, missione compiuta, senza alcuno sforzo. Così il diritto allo studio si trasforma in diritto al diploma o diritto alla laurea.

La via difficile è quella di formare tutti gli studenti in modo che dispongano degli strumenti per affrontare la loro esistenza in modo critico e consapevole, ma ci vogliono tempo, strutture, danaro, riforme, aggiornamento e impegno da parte dei docenti e degli studenti: strada impopolare e dispendiosa, pare sia addirittura necessario studiare, fare i compiti e aggiornarsi. Meglio lasciare le cose come stanno, ma cambiandogli nome ...

Quindi visto che tutti sono inclusi si festeggia: perché praticare ancora la didattica curricolare? Tutti ad alternanza scuola - disoccupazione o a partecipare a qualcuna delle innumerevoli Olimpiadi - giochi e sfide o ad orientarsi e poi storytelling e game based learning e niente più compiti e classi senza zaino e circle time e homeschooling e FabLab e WorkShop e eventi e sci Lab e coworking e festival, etc.
Sembra che l'obiettivo sia eliminare la didattica e spopolare le aule, come se non bastasse la dispersione ci si mette a disperdere volutamente gli studenti. Coloro che stanno in aula e studiano sono vittime di didattiche retrive e fuori dalla realtà dei tempi: anatema su di loro.

Si è già constatata la solo parziale correttezza dell'assimilazione del carattere selettivo della scuola con la pratica della valutazione. Ne è prova il fatto che all'attenuarsi delle forme più clamorose di selettività (quelle tradizionalmente connesse con le bocciature) non corrisponde l'assunzione da parte della scuola di ipotesi volte a un eguagliamento reale delle opportunità di educazione. Le risposte che si sono presentate come alternative alla pratica convenzionale della valutazione, anche quelle più radicali, non appaiono a un esame approfondito meno discriminatorie sul piano sociale. Si tratta di risposte riconducibili a tre principali posizioni: a) la prima tende a conservare il modello didattico, ma si preoccupa di minimizzarne quelle conseguenze che danno luogo a critiche più accese sul piano sociale, prima fra tutte l'espressione di un giudizio di valutazione negativo; b) all'opposto troviamo il rifiuto complessivo non solo della valutazione, ma in generale di una didattica positiva, in nome della superiorità di uno sviluppo naturale e spontaneo rispetto a uno eterodiretto e condizionato; c) c'è infine chi ritiene di poter superare le difficoltà della valutazione con dei correttivi tecnici, partendo dalla constatazione della precarietà delle soluzioni operative cui solitamente ricorre il controllo del profitto scolastico.
Visalberghi, Pedagogia e scienze dell'educazione, 1981


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